Perché l'uso del concetto di Paideia e di Cultura a 360°

Perché l'uso del concetto di Paideia e di cultura a 360°

Dall'iniziale esaltazione dell'aretè, ovvero il culto del coraggio, della valenza fisica e dell'astuzia, gli uomini di cultura e i politici greci vennero man mano delineando una più complessa idea di uomo valente. Costui infatti, accanto al coltivare l'àristoi, ossia l'essere prode, doveva curare : << .. Il padroneggiamento della parola ( .. ) qual segno della sovranità della mente .. >>, ( Werner Jaeger, Paideia, Milano II Edizione Bompiani Pensiero Occidentale 2011, RCS Libri S. p. A. ). E' così che il concetto greco di Paideia prese la sua forma definitiva.

Da allora sono passati più di 2000 anni ma la bellezza e il fascino della visione di come quei " grandi " ritenevano dovesse essere l'uomo ideale non solo non è sorpassata ma, stante la decadenza della nostra Società, è quanto mai attuale.

Ed egualmente fondamentale, oggi come allora è la determinazione delle qualità, virtù ed abilità che il soggetto d'elite debba aver maturato. Doti e nozioni che a mio parere possono rilevarsi soltanto cominciando a pubblicizzare e studiare quanto di meglio i ricercatori scientifici e i nostri " geni " abbiano scoperto nei loro studi attorno all'uomo e alla società.

.. Quanto al resto .. E' solo ciccia! ..

domenica 1 dicembre 2019

Sui dazi USA-Cina e le conseguenze per l'Europa.


Anche se riportato in ritardo è uhn articolo sempre attuale

Il punto economico finanziario della settimana ( 29 aprile 2019 -5 maggio 2019 ) tratto da AltroconsumoFinanza del 23 aprile 2019

Pare che il presidente USA Trump sia piuttosto irritato nei confronti della Federal Reserve. E questo in quanto, a parer suo, se avesse alzato meno i tassi l’economia USA sarebbe oltre il 4% e la Borsa Usa avrebbe quotazioni ancore più elevate.
Altro argomento che irritano gli USA sono i dazi : << .. Non solo quelli con la Cina, ma anche quelli con l'Unione europea. La Commissione europea ha presentato infatti la lista di prodotti Usa su cui potrebbero essere messi dazi per un valore di 20 miliardi di dollari. La mossa dell'Europa non è altro che la risposta agli aiuti di Stato che gli Stati Uniti concedono a Boeing. .. >>. Tra le merci su cui l’Unione Europea ha intenzione di mettere dazi che non piacciono assolutamente a Trump sembrano esservi pure i prodotti Harley Davidson.
Per quanto riguarda poi l’Europa il carovita è in rallentamento e così pure l’inflazione, cosa che spesso indica un rallentamento dell’economia.
<< .. Secondo Banca d'Italia per la manovra del 2020 servono coperture di "notevole entità" se si vuole evitare che aumenti l’IVA, se si vogliono tagliare le tasse e rafforzare gli investimenti. Infatti, per far tutto ciò, senza gli aumenti dell'Iva e senza compensazioni - come tagli alle spese - il deficit salirebbe al 3,4% del Pil: un valore decisamente elevato che creerebbe problemi non solo con l'Europa, perché non rispetteremmo le regole, ma anche con il nostro debito pubblico, che diventerebbe sempre più difficile da sostenere. ..  >>

Ruolo complementare tra Italia, Francia e Germania


Ruolo complementare dell’Italia fra Francia e Germania


Il «rapporto tra la Francia e la Germania», commenta Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Sociètè Gènèrale ne “ La tentazione di andarsene “ (Il Mulino, 2017 ), è uno degli aspetti che resta più difficile da capire agli esponenti politici e all'intero establishment italiano. «Il tentativo di insinuarsi tra due, 1a volontà di schierarsi con l'uno per indebolire l'altro, la speranza che il rapporto si incrini sono il frutto dell'ignoranza - nel senso della non co­noscenza - e del provincialismo. Non si riesce a capire, o ad accettare, che questo legame sia necessario, e considerato necessario da entrambi, anche se non sufficiente, a far progredire l'Europa. Questo è il senso del rapporto franco-tedesco, che consiste nel non andare mai contro gli interessi fonda­mentali dell'altro, nel non criticarsi apertamente, nell’impegnarsi a lavorare insieme, anche quando la soluzione sembra lontana. Se l'Italia vuole avere un ruolo, questo deve essere complementare, non sostitutivo, di tale rapporto. >>

Giulio Conti, Squilibrio italiano e vincolo europeo, Milano 2019, Edizioni Lotta Comunista.

 

Senza immigrazione reggeremo?


«Se è vero, come dicono le proiezioni, che nel 2050 ci saranno tra i 7 e i 10 milioni di italiani in meno, il nostro Stato come potrà reggere? Oggi li vogliamo allontanare, ma tra dieci anni saremo costretti a pagarli per farli venire».

Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, presidente Caritas italiana, "Avvenire", 17 giugno

L’Italia delle piccole imprese.


Secondo Prodi «l'elemento più preoccupante della situazione italiana» risiede nella divergenza radicale dello sviluppo della produttività rispetto a quella dei maggiori paesi concorrenti, rimasta statica in Italia dagli inizi degli anni Duemila, e aumentata di 15 punti in Germania e 14 in Francia. Tra le molteplici cause di questa «fase di decadenza» italiana - funziona­mento della pubblica amministrazione, inefficienze giuridiche e burocratiche, fino a fattori demografici o di psicologia sociale - Prodi ne individua una «fondamentale» nella «scomparsa delle grandi imprese». Con l'ecce­zione di Leonardo, ex Finmeccanica, che comunque può essere elencata tra le medio-grandi, «di grandi imprese manifatturiere italiane non ne è rimasta nemmeno una».
( .. ) Di fatto la forza dell'economia italiana è «concentrata In un campione di alcune centinaia di imprese che hanno la dimensione sufficiente per affrontare i mercati globali e per assorbire le tecnologie più
avanzate >>. Roma si ritrova così ad affrontare la globalizzazione potendo disporre solo di << alcune centinaia di "soldati"», ma senza «né "armi atomiche  “ ( come Google, Apple, Alibaba, Amazon) né "corazzate" (le tradizionali imprese multinazionali come Volkswagen, Nestlé, Siemens e così via)».


Giulio Conti, Squilibrio italiano e vincolo europeo, Milano 2019, Edizioni Lotta Comunista.

L’Italia : stato cuscinetto


«Come dimostrano le tensioni con l'Europa, l'Italia è ormai nei fatti – ed è vista dai suoi partner continentali - come uno Stato cuscinetto: un paese deputato, nella nuova geopolitica mediterranea, a funzionare da "shock absorbing country". Questa realtà ha naturalmente forti costi e forse anche qualche vantaggio; ad esempio, la maggiore flessibilità accordata all’Italia sul versante dei bilanci pubblici potrebbe anche essere una compensazione indiretta. O comunque segnalare che paesi come la Germania o la Francia hanno ormai deciso che spostare a Nord delle Alpi le frontiere europee non è nel loro interesse».
               
Marta Dassù, ex viceministro degli Esteri nei governi Monti e    Letta "La Stampa “ , », 9 luglio 2017

mercoledì 6 novembre 2019

I margini stretti di Berlino



La questione è di lungo e persino di lunghissimo periodo. Le sue radici affondano fin negli esordi dell'era moderna, quando l'Italia è «nazione in ritardo» nell'unificazione statale. L'unità italiana, una volta mancato l'ap­puntamento col Cinquecento dell'assolutismo, dovrà attendere l'Ottocento borghese e la rottura dell'ordine nel sistema degli Stati europei, tra i cui varchi potrà giocare di sponda l'abilità politica di Cavour. Nel Novecento, il tormentato approdo alla democrazia imperialista attraverserà la crisi di fine secolo, le due guerre mondiali imperialiste e, tra di esse, il ventennio fascista. Il decollo imperialistico italiano, lungo i trent’anni del miracolo economico, avverrà dunque a partire da una condizione di deficit politico che ha origini secolari, e che pesa nelle riflessioni di carattere strategico di ambiti chiave dell'establishment nazionale.

Secondo Guido Carli, solo ricorrendo a un «vincolo esterno» si poteva, a partire dal secondo dopoguerra, «innestare nel ceppo della società italiana un insieme di ordinamenti che essa, dal suo intimo, non aveva la capacità di produrre». Firmando nel 1992 il Trattato di Maastricht, in qualità di mini­stro del Tesoro, Carli collocava così la propria azione in continuità con quella di Alcide De Gasperi, del quale raccoglieva simbolicamente il testi­mone. All'adesione dell'Italia al campo atlantico nel dopoguerra, che co­strinse Roma «a misurarsi con le più mature economie industriali», seguiva con Maastricht il nuovo «vincolo esterno»: l'«ancoraggio» all'Unione Europea e il trasferimento di sovranità da Roma a Bruxelles che esso com­portava [Cìnquant'anni di vita italiana, Laterza, 1993).

Giulio Conti, Squilibrio italiano e vincolo europeo, Milano 2019, Edizioni Lotta Comunista.

Guido Carli : Squilibrio politico e vincolo europeo



La questione è di lungo e persino di lunghissimo periodo. Le sue radici affondano fin negli esordi dell'era moderna, quando l'Italia è «nazione in ritardo» nell'unificazione statale. L'unità italiana, una volta mancato l'ap­puntamento col Cinquecento dell'assolutismo, dovrà attendere l'Ottocento borghese e la rottura dell'ordine nel sistema degli Stati europei, tra i cui varchi potrà giocare di sponda l'abilità politica di Cavour. Nel Novecento, il tormentato approdo alla democrazia imperialista attraverserà la crisi di fine secolo, le due guerre mondiali imperialiste e, tra di esse, il ventennio fascista. Il decollo imperialistico italiano, lungo i trent’anni del miracolo economico, avverrà dunque a partire da una condizione di deficit politico che ha origini secolari, e che pesa nelle riflessioni di carattere strategico di ambiti chiave dell'establishment nazionale.
Secondo Guido Carli, solo ricorrendo a un «vincolo esterno» si poteva, a partire dal secondo dopoguerra, «innestare nel ceppo della società italiana un insieme di ordinamenti che essa, dal suo intimo, non aveva la capacità di produrre». Firmando nel 1992 il Trattato di Maastricht, in qualità di mini­stro del Tesoro, Carli collocava così la propria azione in continuità con quella di Alcide De Gasperi, del quale raccoglieva simbolicamente il testi­mone. All'adesione dell'Italia al campo atlantico nel dopoguerra, che co­strinse Roma «a misurarsi con le più mature economie industriali», seguiva con Maastricht il nuovo «vincolo esterno»: l'«ancoraggio» all'Unione Europea e il trasferimento di sovranità da Roma a Bruxelles che esso com­portava [Cìnquant'anni di vita italiana, Laterza, 1993).

Giulio Conti, Squilibrio italiano e vincolo europeo, Milano 2019, Edizioni Lotta Comunista.

venerdì 4 ottobre 2019

A un passo dal nono fallimento dell’Argentina



Altroconsumo 




Altroconsumo Finanza numero 1331 si sofferma sull’Argentina.
La presidenza Macri, iniziata a dicembre 2015, ha tentato di portare avanti tagli e riforme, ma il Paese continua a spendere più di quanto si può permettere e la Banca centrale non riesce a tagliare l’inflazione ( che nel 2019 sarà del 43,7% ).
Non migliora le cose poi il rialzo dei tassi Usa che attira gl’investitori dei Paesi Emergenti all’acquisto di titoli americani ( più sicuri e abbastanza redditizi ). Risultato? Per finanziare il proprio debito in aumento l'Argentina deve pagare tassi d’interesse sempre più alti.
D’altronde, nelle primarie del mese scorso per le presidenziali del 27 ottobre Macri è rimasto minoritario rispetto ad Alberto Fernàndez, che si teme possa far tornare l'Argentina alle politiche fallimentari di cinque anni fa. Il pesos così è sceso nel solo mese di agosto del 25,1 % rispetto all'euro mentre la Borsa ha perso il 38,5 %. In queste condizioni all'Argentina non resta che trattare un nuovo prestito con il Fondo Monetario,  chiedere dilazioni nei pagamenti e bloccare la fuga di capitali all’estero.
Morale della favola?
Parecchi sono convinti che se uscissimo dall’euro potremmo stampare moneta nostra e, annegando il paese di carta moneta, dare sussidi, pensioni, fare qualsiasi tipo di investimenti, stabilire salari decenti e via discorrendo.
Beh! Nonostante sia un Paese emergente e quindi lontano dall’essere tra i paesi più sviluppati, l’Argentina ha una moneta sovrana e nessun vincolo internazionale, a parte quello del dover onorare i propri debiti. Potrebbe dunque inondare il paese di pesos eppure non lo fa. Non solo! E’ costretto a pregare il Fondo Monetario Internazionale perché gli impresti dei soldi. Denari che l’FMI darà a patto d’inviare esperti, imporre al paese un preciso numero di riforme e multe nel caso non venisse rispettato il programma stabilito.
Che vogliamo fare?

Le Nazioni da sole non ce la fanno



In un precedente post si è detto che secondo Tremonti l’Italia, nonostante il debito altissimo, è entrata nell’Unione Europea grazie all’appoggio interessato degl’industriali tedeschi che in tal modo avrebbero costretto l’Italia a smetterla di fare loro concorrenza sleale grazie alla svalutazione della lira.
Ora propongo un punto di vista diverso e più convincente in quanto è improbabile che uomini di vaglia e lo stesso  governo di centro-sinistra che più si battè per entrare nell’Unione non capissero che così facendo non sarebbe andata bene. Non si trattava di sprovveduti ( si parla di economisti del calibro di Mario Draghi, Guido Carli, Romano Prodi, eccetera ) e dunque per costoro il gioco doveva valere la candela.
Secondo Giulio Conti infatti : << .. La crisi ha reso evidenti i rischi per la tenuta dell'intera Unione provocati da un'insufficiente competitività in alcuni Stati membri   e all'opposto, i benefici di cui hanno goduto quei paesi che hanno portato  avanti riforme volte ad aumentare la produttività, come ad esempio Spagna o Grecia. Occorre, per Draghi, prendere atto che “ oggi i governi nazionali non sono in grado di esercitare pienamente la propria sovranità da soli “ semplicemente “ non sono abbastanza potenti”.
Le esperienze dell'Europa sul terreno fiscale, o quelle del Fondo moneta­rio internazionale, insegnano che una «disciplina imposta da un organismo sopranazionale» può rendere più semplice definire il dibattito sulle riforme a livello nazionale. A fianco degli esistenti criteri di convergenza, Draghi ritiene allora opportuno introdurre una serie di «criteri strutturali» da ri­spettare per entrare e rimanere nell'area euro. Per perseguire i propri obiet­tivi i paesi dell'area euro devono imparare a «essere sovrani insieme», portando avanti le necessarie riforme strutturali e non interrompendo il processo di consolidamento dei conti pubblici. .. >>.
Vi era dunque e vi è tuttora una frazione d’intellettuali oltre a industriali e uomini politici di grande spessore per cui il far parte dell’Europa poteva e può imprimere un indirizzo virtuoso a quei Paesi, tra cui il nostro, che da soli non potrebbero comunque farcela.


Bibliografia

Giulio Conti, Squilibrio italiano e vincolo europeo, Milano 2019, Edizioni Lotta Comunista.

venerdì 6 settembre 2019

Breve storia dei nei




Nei secoli passati gli esiti di malattie lasciavano spesso inestetiche cicatrici nel volto e, mancando una qualsiasi forma di chirurgia plastica si cominciò a nascondere le deturpazioni con nei artificiali. Ben presto la cosa divenne di moda nelle classi nobiliari e questo al punto che cominciarono ad adoperarne di forme diverse ( stelle, mezzelune, eccetera ). A Londra il metterli sulla guancia sinistra divenne distintivo dei tories e dei whigs su quella destra. Alla corte di Luigi XIV, addirittura, a seconda di dove la persona se li metteva ( in fronte, all’angolo dell’occhio, nel naso e così via ), le venivano attribuiti particolari qualità estetiche o simboliche.

a ) Riferimenti bibliografici


Desmond Morris, L’uomo e i suoi gesti, Milano, V edizione 1987, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.


giovedì 5 settembre 2019

Le personalità e le andature secondo la scuola bioenergetica




a  ) Colui che non sente il vento

Curioso è l’accenno alla tipologia delle persone basata sul modo di camminare delineata da dottor Caprioglio Vittorio, medico psicoterapeuta di orientamento Bioenergetico e Direttore, tra le altre cose,  di RIZA psicosomatica.
Secondo il nostro specialista ad alcuni viene normale mantenere eretto il proprio assetto grazie a un continuo arrangiamento armonizzante dei passi e dei rapporti fra le parti. In questo caso egli parla di una persona che “ non è influenzata dal ventoe che, come la canna di bambù,  si piega davanti a un ostacolo raddrizzandosi e tornando allo stato iniziale allorché il pericolo sia passato.
Può però capitare che una simile postura non venga naturale ma la persona la mantenga per darsi un contegno. Il tipo in questione  infatti, che sarebbe insicuro, affronta i nuovi eventi irrigidendo la colonna ( che alla lunga soffrirà d’indolenzimenti e artrosi ), e la muscolatura per parare gli eventuali colpi. Date simili premesse è ovvio che preferisca evitare novità e si trinceri dietro regole rassicuranti.

b ) Colui che va controvento

La definizione in questione si attaglia a coloro che camminano protendendo la testa in avanti e arretrando il bacino, si muovono basandosi sulla forza muscolare degli arti inferiori e non poggiano per intero sui piedi  ma solo sulla punta. Costoro avanzano con movimento oscillante come se dovessero dare “ spallate “ senza mai cambiare direzione, neppure di fronte agli ostacoli ed è tipico di persone caparbie. Tipico di questi tipi è il sentirsi cronicamente stanchi in quanto muovendosi in maniera così disequilibrata consumano molte energie. Cosa che, sebbene siano diffidenti, li costringe a cercare aiuto esterno.


c ) Colui che porta il bacino in avanti

Queste persone tendono ad avere il petto aperto, le spalle all’indietro  e ad  appoggiarsi sulla punta dei piedi piuttosto che su tutta la pianta. Il corpo è leggermente arcuato, come se “ avessero il vento in poppa “. Sembra non facciano fatica a camminare e, protendendo all’infuori il petto e il bacino piuttosto che la testa, ( sede della ragione ), privilegiano gli affetti e l’istinto.
Lo specialista autore del saggio sostiene che un tale andazzo, ordinato e senza sforzo, sia tipico di chi, a causa di circostanze favorevoli, non debba o non voglia faticare più del necessario. Aggiungerei che probabilmente si tratta di individui con un davanti prominente, cosa che li costringe a un certo tipo di camminata e a una minore scioltezza nei movimenti, nonché di persone sicure o comunque fiduciose nel prossimo ( ostentare il ventre significa  esporre a offese gli organi vitali del tronco ). L’andare avanti quasi per inerzia poi, porta a confusione e irritazione se ci si arresta o se ci si deve muovere in direzioni insolite e ci si sentirà stanchi  a ogni minimo sforzo.

d ) Colui che è come se fosse schiacciato a terra

Un personaggio del genere ha capo e corpo bene allineati nonché i piedi piatti poiché sostengono il peso del corpo.
L’autore lo definisce “ nessun vento “, e spiega che il suo incedere è orientato a terra ed è costituzionalmente piuttosto potente. E’ proprio questa sua forza a “ radicarlo a terra “ e a renderlo attivo, altruista e pratico.
Soffre di ipertensione e spesso di problemi agli arti inferiori.


e ) Colui che è soggetto a “ tutti i venti “

Lo studioso parla di una persona che non ha un rapporto fisso nell’allineamento di piedi, bacino e spalle, così come non vi è, a livello esistenziale, una visione autonoma delle cose del mondo. Più avanti lo descrive come  un “ molleggiato “ e dinoccolato che al tipico ancheggiare femminile aggiungerebbe lo spostamento ritmico delle spalle ( movimento maschile ). Lo definisce come tipico dell’età adolescenziale, quando per “ darsi un tono “ che in realtà non si possiede, si cerca di evidenziare la propria esuberanza fisica.

f ) Riferimenti bibliografici

Vittorio Caprioglio, Il linguaggio del corpo, Milano 3° ristampa 2005, Edizioni Riza S.p.A.



martedì 6 agosto 2019

Le migrazioni non sono sempre effettuate da persone disperate


 
Pare che possano essere 200 i milioni di africani intenzionati a migrare. Ovviamente vorrebbero tutti arrivare nella ricca Europa e buona parte di questi non sono disperati. Si tratta di giovani provenienti anche da famiglie benestanti stimolati a spostarsi dai malgoverni e dai cambiamenti climatici nonché dalla speranza di raggiungere un benessere sconosciuto di cui se ne ha una qualche idea grazie alle informazioni  TV, alla rete e ai conterranei già emigrati.
Solo che è certamente illusorio poter pensare che queste persone possano integrarsi tutte occupando i lavori umili che gli italiani non vogliono fare, pagare le tasse e quindi contribuire a rimetterci in sesto.
Il difendere strenuamente una simile visione e dunque dichiararsi favorevole all’accettazione di chiunque arrivi è alquanto azzardato.
Tanto più poi che si ha a che fare con una delle regioni più instabili del mondo, dove le guerre locali e spesso anche tribali sono all’ordine del giorno e costringono milioni di persone ad allontanarsene se non vogliono perdere la vita.
Sperare che queste finiscano da un momento all’altro, con l’adozione di sistemi politici democratici simili a quelli europei è un’altra pura illusione. Si tratta di persone con una cultura completamente diversa, dove la violenza è ancora vista come una normale pratica quotidiana e i legami etnici sono più forti di qualsiasi astratta concezione di nazione. Date simili premesse non è facile prevedere quale possa essere la loro evoluzione politica anche se, a causa del nostro passato di colonizzatori e di attuali indebite ingerenze si assiste in realtà alla recrudescenza di sentimenti antioccidentali.
E’ ovvio che, visto che una buona parte di chi arriva da noi non comprende i nostri usi e le abitudini, il doverle osservare possa venir vista come vessazione e creare tensioni sociali. La saggezza imporrebbe una sorta di profonda scrematura dei nuovi arrivi, in modo che la loro integrazione fosse meno problematica. Ma la cosa non è neppure pensabile vista la frequenza degli arrivi, lo spirito solidale  e il diverso orientamento giuridico. Quel ch’è certo è che non sembra bastare l’esser nato in Italia per acquisire la cittadinanza ( ius soli ), se poi non si sa la lingua, non si accetta uno spirito religioso tollerante, non si conoscono e non ci si adegua alle nostre leggi. In questo caso qualcosa si può fare onde evitarlo : basta non emanare la legge.

a ) Bibliografia

Giulio Tremonti, “ Mundus furiosus “, I edizione giugno 2016, Milano 2016, Mondadori Libri S.p.A.
Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti, Rinascimento, prima edizione Milano 2017, Baldini&Castoldi s.r.l.

Il patrimonio pubblico italiano



Di tanto in tanto si sente affermare dai politici che per rintuzzare il debito e rilanciare l’economia si deve vendere parte del patrimonio pubblico italiano. Peccato che in questo campo non vi sia molto da fare, neppure volendo svendere.
Secondo il professor Tremonti infatti ( in  : Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A ), il grosso delle operazioni riguardanti beni pubblici venne fatta nel periodo 1992 – 2005 con un ricavato di circa 100 miliardi di euro.
Successivamente a fine 2001 il Governo in carica di centro sinistra, onde evitare l’impopolarità del dover imporre nuove tasse o ridurre le spese aveva promesso vendite di pubblici immobili per 8000 miliardi e visto che al subentro di Berlusconi non aveva fatto nulla di tutto ciò, per evitare una procedura d’infrazione il neo governo fu costretto all’accatastamento per legge dei beni pubblici e poi alla “ cartolarizzazione “ degli stessi e alla loro vendita sul mercato.
Tra le conseguenze di quell’operazione comunque v’è che dal 2010 il bilancio dello Stato include all'atti­vo anche il «conto patrimoniale» dei beni pubblici, cosa che prima non faceva.
Delle migliaia di società controllate ancora oggi dallo Stato molte costano un “ botto “ ma hanno poco valore, vendendole quindi migliorerebbero i conti economici mentre il ricavato sarebbe poco o nulla. Senza contare poi che, mettendo tutto a un tratto sul mercato un numero consistente di aziende si rischierebbe di svenderle, oppure di averne si un beneficio perché il ricavato potrebbe venire usato per abbassare gl’interessi sul debito ma se ne perderebbero i dividendi.
In alcuni settori poi le società pubbliche che vi operano svolgono un servizio poco redditizio com’è il caso delle Ferrovie dello Stato che, in quanto ser­vizio pubblico, non chiudono molte delle tratte in passivo e comunque non aumentano gli abbonamenti dei pendolari onde non creare forti tensioni nei soggetti più disagiati.
Del resto molti degli edifici pubblici nostrani sono scuole, ospedali e pubbli­ci uffici non facilmente collocabili a meno di cederne la proprietà ai privati che poi chiederebbero un canone sull’utilizzo degli stessi da parte dello Stato, visto che comunque da qualche parte dovrà ben aprire i propri uffici. Senza contare poi che si dovrebbe modificare la Costituzione, che riserva a «Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni ... un proprio patrimonio» (Titolo V, art. 119, sesto comma).
Non solo, cedendo di botto queste proprietà rischieremmo di svalutare le restanti e quindi perdere  una parte consistente di garanzia del nostro debito.
Insomma, secondo il professore sopra citato di ciccia ce n’è poca e non stento a crederci anche se, avessimo noi italiani una mentalità più imprenditoriale, qualcosa si potrebbe fare.
Prendiamo per esempio gli stabili. A che prò mantenere quelli la cui manutenzione costa cifre folli per poi non averne un beneficio corrispondente? Per dar lavoro a ditte o dipendenti che sennò non hanno da lavorare? Perché sottoposti a vincoli paesaggistici, artistici o culturali? Che vuol dire? Che qualsiasi baracca ha valore storico è inamovibile? Perché non abbatterla e farne parcheggio o parco giochi in attesa eventualmente che quel terreno venga interessato da un progetto di riconversione più interessante?
Già soltanto da queste poche righe potremmo ricavarne due obiettivi : innanzitutto porre attenzione alla gestione economica della cosa pubblica, in secondo luogo rimodellare le normative e i punti di vista diversi ponendo in primo piano, per l’appunto, l’esigenza di una sana direzione.
In quanto azionisti dello Stato italiano che contribuiamo a ingrassare con le imposte pagate è il minimo che si possa chiedere. Siamo infatti noi cittadini che dobbiamo definire le linee guida che i signori politici devono seguire e questi, in quanto tali, devono renderci conto del loro operato con serietà, competenza e dedizione. Abituiamoli dunque a smetterla di badare agli affaracci propri e della consorteria di appartenenza e a renderli consapevoli che vogliamo facciano esclusivamente ciò di cui il Paese necessita. Il che non è poco.

Bibliografia

Giulio Tremonti, Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A

lunedì 15 luglio 2019

La Commissione e il Parlamento europeo



Ancora nel 2008 il professor Tremonti spiega che La Commissione europea è costituita da tanti commissari quante sono le nazioni facenti parte dell’Unione. Rappresentando ciascuno di essi il proprio stato è estremamente difficile che riescano a trovare un accordo su qualcosa. Nel momento in cui si arriva a uno stallo nelle deliberazioni continua ad avere la meglio l’attività burocratica. Non a caso sempre il nostro famoso studioso afferma ( in : Rischi fatali edito a Milano nel 2005 da Arnoldo Mondadori Editore S.p.A ), che essa è nata per fare : << .. Arbitraggi di carat­tere interno: «Europa su Europa». E non per tutelare e proiettare all'esterno i nostri interessi. Gli altri Paesi, i nostri concorrenti, vanno nel WTO con il loro governo. L'Europa ci va con un «commis­sario». Dietro il quale c'è un inefficiente meccanismo di burocrazia politica. .. >>.
Non solo! Per quanto riguarda i Ministri rappresentanti dei governi insediati nel Consiglio, visto infatti che ogni Stato indice ogni 4 o 5 anni le proprie elezione europee, ogni qual volta quelli si riuniscono almeno 4 o 5 sono in campagna elettorale paralizzando così il processo decisionale che cerca di risolvere l’impasse, quando ci riesce,  deliberando all’unani­mità.
Come ciliegina sulla torta vi si può aggiungere che il Parlamento europeo non ha iniziativa legislativa e dunque non gioca il ruolo che ha nelle nazioni europee.
L’Istituto in questione avrebbe certo un diverso peso se gli attribuisse «iniziativa legislativa» sulle materie che non sono più di competenza nazionale. In questo modo la Commissione Europea cesserebbe di essere la principale autorità legislativa e diventerebbe un'autorità di controllo e vigilanza.
La cosa tuttavia, visto che non è stata prevista  sottolinea che non era “ nelle corde “ di chi ha attuato l’Unione Europea creare un forte stato federativo continentale a difesa della concorrenza asiatica a Est e americana a Ovest. All’epoca del Trattato di Roma le potenze europee non erano affatto tallonate dalla concorrenza estera. Loro obiettivo era quello di favorire al massimo gli scambi intereuropei, creare opportunità interne di sviluppo, Favorire la formazione di grandi imprese e una lenta caduta di tutte quelle barriere che potevano ostacolare quanto sopra e questo onde evitare quelle frizioni che alla fine erano state la vera causa delle prima e seconda guerra mondiale.

a ) Bibliografia

Giulio Tremonti, La paura e la speranza, Milano 2008, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A..
Giulio Tremonti, Rischi fatali, Milano 2005, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A..



giovedì 4 luglio 2019

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Secondo il professore Giulio Tremonti in Bugie e verità ( Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A ), nel 2014 il bilancio pubblico italiano stava migliorando. Ciò significherebbe che all’epoca l’Italia stava faticosamente risalendo la china.
La nostra spesa primaria infatti, ovvero la spesa pubblica non per interessi era già allineata o inferiore a quella delle altre principali economie europee e questo in quanto la spesa sanitaria era già un poco inferiore a quella europea mentre quella pensionistica si avviava a essere pari alla media del continente. Idem per la spesa per il pubblico impiego. Tant’è vero che a partire dal 2008 i dipendenti pubblici sono diminuiti e in sovrappiù sono pagati di meno. Di più non si sarebbe potuto fare dato l’impatto negativo del ciclo socio-economico.
Peccato che nel frattempo molti altri stati, causa la crisi, aumentavano il proprio indebitamento e, grazie al fatto che si trattava di paesi economicamente più forti, attraevano gl’investitori. Per farci prestare i capitali necessari quindi, non ci restava che aumentare la prospettiva di redditività dell’investimento offrendo interessi più alti, cosa che peggiorava il grado di solvibilità. Ciò faceva si che la nostra spesa per inte­ressi sul debito pubblico sia più o meno doppia rispetto a quella di altri Paesi e da allora a oggi è sicuramente aumentata.
La soluzione sarebbe abbattere il debito pubblico, cosa più facile a dirsi che a farsi e quando si comincia a discutere sui possibili tagli chi dovrebbe esserne vittima si rifiuta categoricamente di farlo adducendo che siano coloro che non pagano le tasse a farlo. Richiesta del tutto legittima che però risulta difficile da attuare, vuoi perché richiede notevoli energie da spendere, vuoi in quanto non è detto che a fronte di ciò il ricavato sia sufficientemente rilevante.
E’ normale allora che, chi potrebbe patire le conseguenze di una diminuzione di contribuzioni difenda la propria mercede gettando l’occhio invidioso su chi  possieda qualcosa in più ( milionario o povero cristo che sia ).
Ci si può fare un’idea del punto di vista di costoro riportando un piccolo aneddoto tratto Dal discorso di Mario Savio alla cerimonia di laurea del figlio Nadav ( Citato da : Enrico Deaglio, Patria 1978 - 2008, Milano 2009, Il Saggiatore S.P.A. ).
Mio padre mi raccontò la storia del comunista che va da don Peppino per convincerlo della bontà del comunismo. Don Peppino disse : << Voi dunque credete che tutti gli uomini dovrebbero dividersi la ricchezza in parti uguali? >>.
<< Esattamente, don Peppino >>.
<< Bene, allora io volentieri divido la mia proprietà e ve ne regalo la metà >>:
<< Oh, grazie don Peppino >>.
<< Però un’altra domanda. Cosa capita se tra un anno voi avete scialacquato la vostra parte? >>:
<< Oh, don Peppino, in quel caso bisognerà di nuovo dividere in due >>.
Detta così, papale papale, molti fautori della giustizia sociale non ci fanno una grande figura e non ce la fanno perché se opportunisti rivelano una natura gretta almeno quanto quella dei “ cattivoni egoisti “. Se idealisti una visione fuori della realtà. Ma torniamo alle cure con le quali si pensa di sradicare il debito nostrano.
E’ risaputo che l’italiano medio sia un gran risparmiatore, sia nell’eventualità di aiutare i propri figli a sistemarsi, sia per far fronte a eventi gravi e imprevedibili e nel 2014 questo patrimonio veniva calcolato ( i dati sono sempre ricavati dal sopraddetto libro del professor Giulio Tremonti ), in circa 8000 miliardi ( 5000 in immobili, 3000 in redditi d'impresa e finanziari ). Con una simile cifra si potrebbe azzerare il debito pubblico rimanendo ancora con più di 5000 miliardi di euro di ricchezza e pare che questo fattore ( ovvero il rapporto ricchezza privata – debito pubblico ), venga considerato anche in sede europea come un elemento probatorio importante della potenziale solvibilità di uno stato. Non è infatti la stessa cosa avere conti pubblici migliori ma cittadini  indebitati sino al collo.
Il fatto è però che su questa millantata ricchezza non è da farvi proprio conto. Tanto per cominciare dal 2014 ad adesso, tra mancati introiti finanziari, aumento delle spese, crac bancari, crisi immobiliare, licenziamenti e quant’altro è probabile che la prosperità privata si sia drasticamente ridotta. In secondo luogo il patrimonio privato è immobilizzato in investimenti da cui non sempre lo Stato può esigere alcunché. In terzo luogo se lo Stato accentuasse il suo prelievo fiscale in  maniera consistente parecchi privati sarebbero costretti a vendere le proprietà e i titoli. Ciò comporterebbe un eccesso di offerta e quindi un deprezzamento degli stessi che finirebbe per ridurre in modo esponenziale le entrate. Come se non bastasse banche, fondi pensioni, fondi d’investimento e quant’altro potrebbero decidere, onde evitare di registrare perdite importanti, di ritirarsi dall’investire in Italia mentre altri gruppi, forse anche più micidiali, potrebbero speculare sul ribasso, con effetti a catena disastrosi.
Senza contare che una volta bruciate le ricchezze private non si farebbe altro che aumentare il numero dei poveri che a loro volte non potrebbero far altro che invocare assistenza pubblica, incrementando nuovamente la spesa statale.
Il professor Tremonti, sempre nel libro citato, offre un’altra soluzione. Premesso che in quanto risparmiatori spesso si acquistano proprietà, titoli o azioni di società estere ( lo studioso afferma che ogni anno, almeno sino al 2014, gl’italiani comperino più di 40.000 case fuori dalla madre patria ), sarebbe bene convincerli ad acquistare i nostri titoli di stato. Se così facessero per altro si eviterebbero le manovre speculative  contro l’Italia che invece sono possibili “ ingrassando “ i portafogli degli stati esteri.
Certo investire all’estero non è sempre più redditizio che farlo in Italia ma resta comunque la sensazione che si tratti di una strada poco percorribile visto che i nostri titoli già allora erano considerati carta straccia e quindi altamente a rischio.  E’ improbabile infatti che gli italiani più prudenti, a meno che non vi siano costretti, rischino di perdere tutti i loro risparmi finanziando in massa il debito pubblico. Quei soldi rappresentano la loro assicurazione contro ogni brutta evenienza e la finanza insegna che in questo caso il migliore investimento è in titoli “ sicuri “. Senza contare che l’esperienza greca e argentina insegnano che quando lo Stato sia alla canna del gas una delle prime cose che fa, assieme all’inasprimento fiscale è decretare l’emissione di titoli di stato a lunga scadenza e a interessi ridicoli che sostituiscano quelli “ buoni “ detenuti. Non male vero come soluzione che salvaguardi i milioni di piccoli risparmiatori italiani!
Altre strade non sono percorribili a meno che non s’imbocchi quella suicida del tagliare drasticamente le spese socio assistenziali, previdenziali e pensionistiche. Ancor peggio andrebbe se fatte in un momento di crisi economica e sociale in un contesto di bilancio pubblico già tendente al pareggio : in questo caso si scatenerebbero grandi fenomeni recessivi.

Bibliografia


Giulio Tremonti, Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A

martedì 18 giugno 2019

Populismo



Nel momento in cui nostre merci hanno grosse difficoltà a essere vendute a fronte di quelle asiatiche il  nostro apparato produttivo è entrato in panne e il “ sistema “ ha cercato di recuperare i profitti perduti per mezzo della speculazione finanziaria. A lungo andare però pure il settore bancario è entrato in crisi perché nel gioco d’azzardo  qualcuno perde sempre e a questo punto le sofferenze della popolazione che non riesce ad arrivare a fine mese si riducono in richieste d’attenzioni che il mondo politico non può non raccogliere. Il problema però non sta tanto nel farsene carico quanto nelle possibilità di risoluzione. Nell’ultimo ventennio infatti sono stati premiati i partiti che man mano hanno fatto promesse elettorali più radicali salvo poi abbatterli sistematicamente nel momento in cui deludevano l’aumentato numero di elettori in difficoltà. D’altro canto comprenderne le difficoltà e proporre espedienti seducenti comporta anche l’uso di un linguaggio più popolare .
Dunque, se in tutti questi anni di politica i professori, con le loro complicatissime analisi, non hanno concluso niente e faticano a raccogliere consenso li si bypasserà proponendo soluzioni più spicce ( anche perché nel frattempo il malessere della gente si è acuito di molto ), che raccolgano l’immediata adesione.
Da qui la nostalgia del passato  e il dito puntato contro l’Europa e l’élite al potere.
Non che su ciò abbiano torto ma il fatto è che qualunque Masaniello salga al governo diverrà  gradualmente tracotante come chi l’ha preceduto e, riguardo l’Europa, all’epoca l’Unione  faceva gola a tutti. L’integrazione economica e finanziaria infatti abbatteva costi e costituiva occasione per investimenti più fruttuosi così come favoriva l’intensificazione del commercio interno laddove quello extraeuropeo era già in difficoltà a causa della concorrenza orientale. Senza contare, per quanto riguarda l’Italia, che l’entrata nell’Unione poteva comportare la possibilità di trattare maggiori possibilità di chance, garanzie o dilazioni  riguardo il proprio debito pubblico.
Vero è che le cose non sono andate proprio così bene ma è ancora da vedere se i prossimi “ capi “ riusciranno a fare meglio.

Bibliografia

Giulio Tremonti, Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A


mercoledì 5 giugno 2019

L’Italia è entrata nell’euro perché l’ha voluta la Germania



Il professor Giulio Tremonti sostiene che con la riunificazione delle due Germanie si temeva un rafforzamento tale di quel paese e del suo marco da mettere in seria difficoltà gli altri stati europei. Da qui, forse, una delle ragioni della nascita dell’euro ovvero di una moneta unica che stabilendo un cambio fisso marco – euro avrebbe azzerato la probabile  rivalutazione del marco sulle altre monete europee. D’altro canto  è possibile che la Germania abbia accettato di buon grado l’euro, vuoi per non vedere salire alle stelle il valore della propria moneta, che avrebbe potuto danneggiare l’export, vuoi ottenendo prestiti a tasso agevolato che sostenessero i costi della riunificazione.
D’altronde l’Unione Europea non è nata in seguito a una sottomissione delle nazioni vicine alla più potente bensì in seguito a interminabili riunioni a tavolino dei primi ministri. E’ dunque ovvio che i paesi accettassero di costruirla in base alla propria convenienza e che questa fosse soprattutto economica e finanziaria. Non è un caso che il suddetto professore ( in Giulio Tremonti, Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A ), definisca il politico francese Jean Monnet e il suo “ metodo “ fondato sul principio : «Fede­rate i loro portafogli, federerete i loro cuori», quale grande ispiratore della strategia del MEC.
Al di la di ciò comunque l’Italia non centrava nessuno dei criteri stabiliti per entrare nell’euro. Nonostante ciò gran parte del mondo economico nostrano lo reputava un fattore essenziale per la nostra crescita economica mentre per il Governo sarebbe stato un prestigioso risultato da sbandierare.
Coi nostri 60 milioni di abitanti e la seconda industria manifatturiera d’Europa del resto potevamo rappresentare un pilastro importante della nuova Comunità Europea mentre, d’altro canto, gli alleati erano spaventati dal nostro debito pubblico e dalle debolezze strutturali politiche e sociali.
Tenerci fuori dall’EU tuttavia risultava inviso a molti ambienti economici e politici tedeschi. Sino ad allora infatti le nostre esportazioni avevano beneficiato della svalutazione della lira. I nostri costi produttivi infatti erano molto alti ma le vendite “ tenevano “, sia grazie al prestigio del design italiano considerato fra i più belli al mondo, sia per il fatto che il prezzo delle nostre merci in dollari e marchi non costavano un granché.
Insomma, non è che l’entrata dell’Italia nell’euro sia dipesa dalla tanto decantata abilità dei politici al governo quanto dagli ambienti industriali e finanziari tedeschi e non. Per costoro infatti  la scelta del Governo italiano di svalutare scientemente la valuta italiana per rendere più appetibili i nostri prodotti era considerata concorrenza sleale e dato che portava miliardi di perdite alle aziende di quegli stati li determinava a facilitarne l’entrata italiana nell’Unione.
In questo modo anche noi avremmo dovuto accettare un cambio fisso e a quel punto la nostra Banca centrale non avrebbe più potuto avvantaggiare l’export svalutando la lira a suo piacimento. Così facendo il costo delle merci italiane sarebbe stato simile se non superiore a quelle concorrenti e quindi questi sarebbero risultati più appetibili.
Non è un caso che nel corso di una riunione tenutasi sul lago Lemano i grandi esponenti dell’industria tedesca avessero predetto che una volta che l’industria italiana fosse entrata nell’euro sarebbe stata strangolata dal cambio fisso.
Acquistato il beneplacito europeo alla nostra entrata nell’Unione anche lo spread, ovvero l’interesse pagato in più per collocare i nostri titoli pubblici rispetto a quelli tedeschi, sarebbe sceso. Questo in quanto l’accettazione nel consesso europeo avrebbe funzionato da garante della nostra solvibilità. Il risultato favorevole ovviamente aveva alimentato il consenso attorno ai fautori dell’adesione alla UE che quindi si apprestarono di buon grado ad approntare le indispensabili correzioni di bilancio volte a limitare, entro la metà del 1998, la crescita annua del debito pubblico al 3% del PIL.
I tedeschi lo ottennero gonfiando il bilancio e diluendo così l’incidenza del debito, con le riserve aurifere, i francesi inserendo nella contabilità pubblica i fondi pensione, noi, sia diminuendo gl’investimenti pubblici ( anche se però la spesa pubblica corrente ha continuato a salire ), sia contabilizzando diversamente i contributi INPS, sia con l’incremento delle tasse, tra cui la cosiddetta “ eurotassa “.
L’entità del nostro “ rosso “ però era così alto che tali manovre non bastavano a centrare i parametri stabiliti a Maastricht. Tanto più poi che l’abbassamento dei tassi d’interesse non era rapido poiché una parte consistente dei nostri Titoli di Stato aveva ed ha durata pluriennale. Ciò significava che il saggio richiesto per essi avrebbe rallentato per alcuni anni la sua discesa complessiva.
Si ritenne così necessario ricorrere ad operazioni finanziarie altamente  speculative, ovvero facendosi imprestare somme molto grosse a fronte di 'opzioni swap sui tassi d'interes­se. Ciò comportava il poter presentare in bilancio entrate consistenti che “ diluivano “ in percentuale la consistenza del debito impegnandosi a pagare alla scadenza di queste cosiddette  swaption cifre disastrose nel caso che non si fosse riusciti a centrare l’opzione più favorevole. Nacquero così, scrive il noto professore ( in Rischi fatali, edito a Milano nel 2005 da Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. ), i : << .. Segretissimi “ derivati per l'Europa “ .. >>.
Senza quei pastrocchi, sostiene ancora il noto studioso e uomo politico, l’andamento del PIL di quegli anni non sarebbe stato tale da giustificare entrate così alte come quelle presentate in bilancio. Senza contare poi che queste “ manovre “, che erano rese necessarie dalla nostra debolezza finanziaria, erano risapute dai nostri alleati  e li preoccupava riguardo , la nostra solvibilità al punto da costringerci ad accettare condizioni di cambio lira – euro molto penalizzanti.
In conclusione, da che mondo è mondo chi pecora si fa il lupo se la mangia e noi essendo una potenza di serie B, la cui classe dirigente per di più non è d’accordo su niente, siamo ancora più appetibili da spartire nei banchetti ove sono invitati i grandi.

b ) Bibliografia

Giulio Tremonti, Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A
Giulio Tremonti, Rischi fatali, Milano 2005, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A..