Perché l'uso del concetto di Paideia e di Cultura a 360°

Perché l'uso del concetto di Paideia e di cultura a 360°

Dall'iniziale esaltazione dell'aretè, ovvero il culto del coraggio, della valenza fisica e dell'astuzia, gli uomini di cultura e i politici greci vennero man mano delineando una più complessa idea di uomo valente. Costui infatti, accanto al coltivare l'àristoi, ossia l'essere prode, doveva curare : << .. Il padroneggiamento della parola ( .. ) qual segno della sovranità della mente .. >>, ( Werner Jaeger, Paideia, Milano II Edizione Bompiani Pensiero Occidentale 2011, RCS Libri S. p. A. ). E' così che il concetto greco di Paideia prese la sua forma definitiva.

Da allora sono passati più di 2000 anni ma la bellezza e il fascino della visione di come quei " grandi " ritenevano dovesse essere l'uomo ideale non solo non è sorpassata ma, stante la decadenza della nostra Società, è quanto mai attuale.

Ed egualmente fondamentale, oggi come allora è la determinazione delle qualità, virtù ed abilità che il soggetto d'elite debba aver maturato. Doti e nozioni che a mio parere possono rilevarsi soltanto cominciando a pubblicizzare e studiare quanto di meglio i ricercatori scientifici e i nostri " geni " abbiano scoperto nei loro studi attorno all'uomo e alla società.

.. Quanto al resto .. E' solo ciccia! ..

martedì 6 agosto 2019

Le migrazioni non sono sempre effettuate da persone disperate


 
Pare che possano essere 200 i milioni di africani intenzionati a migrare. Ovviamente vorrebbero tutti arrivare nella ricca Europa e buona parte di questi non sono disperati. Si tratta di giovani provenienti anche da famiglie benestanti stimolati a spostarsi dai malgoverni e dai cambiamenti climatici nonché dalla speranza di raggiungere un benessere sconosciuto di cui se ne ha una qualche idea grazie alle informazioni  TV, alla rete e ai conterranei già emigrati.
Solo che è certamente illusorio poter pensare che queste persone possano integrarsi tutte occupando i lavori umili che gli italiani non vogliono fare, pagare le tasse e quindi contribuire a rimetterci in sesto.
Il difendere strenuamente una simile visione e dunque dichiararsi favorevole all’accettazione di chiunque arrivi è alquanto azzardato.
Tanto più poi che si ha a che fare con una delle regioni più instabili del mondo, dove le guerre locali e spesso anche tribali sono all’ordine del giorno e costringono milioni di persone ad allontanarsene se non vogliono perdere la vita.
Sperare che queste finiscano da un momento all’altro, con l’adozione di sistemi politici democratici simili a quelli europei è un’altra pura illusione. Si tratta di persone con una cultura completamente diversa, dove la violenza è ancora vista come una normale pratica quotidiana e i legami etnici sono più forti di qualsiasi astratta concezione di nazione. Date simili premesse non è facile prevedere quale possa essere la loro evoluzione politica anche se, a causa del nostro passato di colonizzatori e di attuali indebite ingerenze si assiste in realtà alla recrudescenza di sentimenti antioccidentali.
E’ ovvio che, visto che una buona parte di chi arriva da noi non comprende i nostri usi e le abitudini, il doverle osservare possa venir vista come vessazione e creare tensioni sociali. La saggezza imporrebbe una sorta di profonda scrematura dei nuovi arrivi, in modo che la loro integrazione fosse meno problematica. Ma la cosa non è neppure pensabile vista la frequenza degli arrivi, lo spirito solidale  e il diverso orientamento giuridico. Quel ch’è certo è che non sembra bastare l’esser nato in Italia per acquisire la cittadinanza ( ius soli ), se poi non si sa la lingua, non si accetta uno spirito religioso tollerante, non si conoscono e non ci si adegua alle nostre leggi. In questo caso qualcosa si può fare onde evitarlo : basta non emanare la legge.

a ) Bibliografia

Giulio Tremonti, “ Mundus furiosus “, I edizione giugno 2016, Milano 2016, Mondadori Libri S.p.A.
Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti, Rinascimento, prima edizione Milano 2017, Baldini&Castoldi s.r.l.

Il patrimonio pubblico italiano



Di tanto in tanto si sente affermare dai politici che per rintuzzare il debito e rilanciare l’economia si deve vendere parte del patrimonio pubblico italiano. Peccato che in questo campo non vi sia molto da fare, neppure volendo svendere.
Secondo il professor Tremonti infatti ( in  : Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A ), il grosso delle operazioni riguardanti beni pubblici venne fatta nel periodo 1992 – 2005 con un ricavato di circa 100 miliardi di euro.
Successivamente a fine 2001 il Governo in carica di centro sinistra, onde evitare l’impopolarità del dover imporre nuove tasse o ridurre le spese aveva promesso vendite di pubblici immobili per 8000 miliardi e visto che al subentro di Berlusconi non aveva fatto nulla di tutto ciò, per evitare una procedura d’infrazione il neo governo fu costretto all’accatastamento per legge dei beni pubblici e poi alla “ cartolarizzazione “ degli stessi e alla loro vendita sul mercato.
Tra le conseguenze di quell’operazione comunque v’è che dal 2010 il bilancio dello Stato include all'atti­vo anche il «conto patrimoniale» dei beni pubblici, cosa che prima non faceva.
Delle migliaia di società controllate ancora oggi dallo Stato molte costano un “ botto “ ma hanno poco valore, vendendole quindi migliorerebbero i conti economici mentre il ricavato sarebbe poco o nulla. Senza contare poi che, mettendo tutto a un tratto sul mercato un numero consistente di aziende si rischierebbe di svenderle, oppure di averne si un beneficio perché il ricavato potrebbe venire usato per abbassare gl’interessi sul debito ma se ne perderebbero i dividendi.
In alcuni settori poi le società pubbliche che vi operano svolgono un servizio poco redditizio com’è il caso delle Ferrovie dello Stato che, in quanto ser­vizio pubblico, non chiudono molte delle tratte in passivo e comunque non aumentano gli abbonamenti dei pendolari onde non creare forti tensioni nei soggetti più disagiati.
Del resto molti degli edifici pubblici nostrani sono scuole, ospedali e pubbli­ci uffici non facilmente collocabili a meno di cederne la proprietà ai privati che poi chiederebbero un canone sull’utilizzo degli stessi da parte dello Stato, visto che comunque da qualche parte dovrà ben aprire i propri uffici. Senza contare poi che si dovrebbe modificare la Costituzione, che riserva a «Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni ... un proprio patrimonio» (Titolo V, art. 119, sesto comma).
Non solo, cedendo di botto queste proprietà rischieremmo di svalutare le restanti e quindi perdere  una parte consistente di garanzia del nostro debito.
Insomma, secondo il professore sopra citato di ciccia ce n’è poca e non stento a crederci anche se, avessimo noi italiani una mentalità più imprenditoriale, qualcosa si potrebbe fare.
Prendiamo per esempio gli stabili. A che prò mantenere quelli la cui manutenzione costa cifre folli per poi non averne un beneficio corrispondente? Per dar lavoro a ditte o dipendenti che sennò non hanno da lavorare? Perché sottoposti a vincoli paesaggistici, artistici o culturali? Che vuol dire? Che qualsiasi baracca ha valore storico è inamovibile? Perché non abbatterla e farne parcheggio o parco giochi in attesa eventualmente che quel terreno venga interessato da un progetto di riconversione più interessante?
Già soltanto da queste poche righe potremmo ricavarne due obiettivi : innanzitutto porre attenzione alla gestione economica della cosa pubblica, in secondo luogo rimodellare le normative e i punti di vista diversi ponendo in primo piano, per l’appunto, l’esigenza di una sana direzione.
In quanto azionisti dello Stato italiano che contribuiamo a ingrassare con le imposte pagate è il minimo che si possa chiedere. Siamo infatti noi cittadini che dobbiamo definire le linee guida che i signori politici devono seguire e questi, in quanto tali, devono renderci conto del loro operato con serietà, competenza e dedizione. Abituiamoli dunque a smetterla di badare agli affaracci propri e della consorteria di appartenenza e a renderli consapevoli che vogliamo facciano esclusivamente ciò di cui il Paese necessita. Il che non è poco.

Bibliografia

Giulio Tremonti, Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A