Di tanto in
tanto si sente affermare dai politici che per rintuzzare il debito e rilanciare
l’economia si deve vendere parte del patrimonio pubblico italiano. Peccato che
in questo campo non vi sia molto da fare, neppure volendo svendere.
Secondo il
professor Tremonti infatti ( in : Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo
Mondadori Editore S.p.A ), il grosso delle operazioni riguardanti beni pubblici
venne fatta nel periodo 1992 – 2005 con un ricavato di circa 100 miliardi di
euro.
Successivamente
a fine 2001 il Governo in carica di centro sinistra, onde evitare l’impopolarità
del dover imporre nuove tasse o ridurre le spese aveva promesso vendite di
pubblici immobili per 8000 miliardi e visto che al subentro di Berlusconi non
aveva fatto nulla di tutto ciò, per evitare una procedura d’infrazione il neo
governo fu costretto all’accatastamento per legge dei beni pubblici e poi alla
“ cartolarizzazione “ degli stessi e alla loro vendita sul mercato.
Tra le
conseguenze di quell’operazione comunque v’è che dal 2010 il bilancio dello
Stato include all'attivo anche il «conto patrimoniale» dei beni pubblici, cosa
che prima non faceva.
Delle migliaia
di società controllate ancora oggi dallo Stato molte costano un “ botto “ ma
hanno poco valore, vendendole quindi migliorerebbero i conti economici mentre
il ricavato sarebbe poco o nulla. Senza contare poi che, mettendo tutto a un
tratto sul mercato un numero consistente di aziende si rischierebbe di
svenderle, oppure di averne si un beneficio perché il ricavato potrebbe venire
usato per abbassare gl’interessi sul debito ma se ne perderebbero i dividendi.
In alcuni
settori poi le società pubbliche che vi operano svolgono un servizio poco
redditizio com’è il caso delle Ferrovie dello Stato che, in quanto servizio
pubblico, non chiudono molte delle tratte in passivo e comunque non aumentano
gli abbonamenti dei pendolari onde non creare forti tensioni nei soggetti più
disagiati.
Del resto
molti degli edifici pubblici nostrani sono scuole, ospedali e pubblici uffici
non facilmente collocabili a meno di cederne la proprietà ai privati che poi
chiederebbero un canone sull’utilizzo degli stessi da parte dello Stato, visto
che comunque da qualche parte dovrà ben aprire i propri uffici. Senza contare
poi che si dovrebbe modificare la Costituzione, che riserva a «Comuni,
Province, Città metropolitane e Regioni ... un proprio patrimonio» (Titolo V,
art. 119, sesto comma).
Non solo,
cedendo di botto queste proprietà rischieremmo di svalutare le restanti e
quindi perdere una parte consistente di
garanzia del nostro debito.
Insomma,
secondo il professore sopra citato di ciccia ce n’è poca e non stento a
crederci anche se, avessimo noi italiani una mentalità più imprenditoriale,
qualcosa si potrebbe fare.
Prendiamo per
esempio gli stabili. A che prò mantenere quelli la cui manutenzione costa cifre
folli per poi non averne un beneficio corrispondente? Per dar lavoro a ditte o
dipendenti che sennò non hanno da lavorare? Perché sottoposti a vincoli paesaggistici,
artistici o culturali? Che vuol dire? Che qualsiasi baracca ha valore storico è
inamovibile? Perché non abbatterla e farne parcheggio o parco giochi in attesa
eventualmente che quel terreno venga interessato da un progetto di
riconversione più interessante?
Già soltanto
da queste poche righe potremmo ricavarne due obiettivi : innanzitutto porre
attenzione alla gestione economica della cosa pubblica, in secondo luogo
rimodellare le normative e i punti di vista diversi ponendo in primo piano, per
l’appunto, l’esigenza di una sana direzione.
In quanto
azionisti dello Stato italiano che contribuiamo a ingrassare con le imposte
pagate è il minimo che si possa chiedere. Siamo infatti noi cittadini che
dobbiamo definire le linee guida che i signori politici devono seguire e
questi, in quanto tali, devono renderci conto del loro operato con serietà,
competenza e dedizione. Abituiamoli dunque a smetterla di badare agli affaracci
propri e della consorteria di appartenenza e a renderli consapevoli che vogliamo
facciano esclusivamente ciò di cui il Paese necessita. Il che non è poco.
Bibliografia
Giulio
Tremonti, Bugie e verità, Milano 1°
edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A
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