a ) Le origini
La Rivoluzione
industriale è stata caratterizzata da periodi di grande sviluppo a cui faceva
seguito una sovrapproduzione rispetto alla domanda di merci e quindi fasi di
stagnazione. In questi momenti diventava indispensabile studiare nuovi modi per
stimolare le vendite e ben presto i dirigenti iniziarono a chiedersi se fosse
possibile ridurre la durata del funzionamento delle merci. Di modo che il loro
più rapido deterioramento costringesse a
una frequente sostituzione..
Furono quindi
effettuate delle vere e proprie ricerche in questo senso e pare che alla fine
gl’ingegneri riuscirono a inventare prodotti meno longevi.
In un articolo
intitolato infatti : “Vecchi prima del
tempo “, apparso su Altroconsumo numero 285 dell’ottobre 2014 ed edito
da Altroconsumo Edizioni s.r.l. si
sostiene che : << .. La storia è
iniziata nel lontano 1924, quando i rappresentanti delle principali aziende
elettriche del mondo si riuniscono a Ginevra per prendere una decisione che introdurrà un nuovo modello
commerciale, ovvero impiegare tecniche
specifiche in modo che le lampadine non possano durare più di 1.000 ore.
Insomma, si
decide di creare a tavolino una lampadina più fragile di quanto permesso dalla
tecnologia del tempo. È la prima volta che si definisce di proposito la durata
di vita di un prodotto per far crescere le vendite. E nasce così per la prima
volta il concetto di obsolescenza programmata, una sorta di meccanismo occulto,
ben celato dal mondo dell’industria, che apre la strada alla società dei
consumi.
Oltre a questo
primato, si aggiunge il fatto che si tratta del primo accordo tra aziende a
livello mondiale (chiamato “cartello Phoebus”), per ottenere con una strategia
comune maggiori profitti: spingere i consumatori a cambiare più spesso le
lampadine. .. >>.
Da allora i
tentativi si sono moltiplicati e si può affermare che adesso sia divenuta una
pratica costante. Tant’è vero che, ed è sempre l’articolo sopra citato ad
affermarlo, studi commissionati da gruppi parlamentari tedeschi lo
confermerebbero.
La colpa
dunque dei frequenti guasti che i nostri beni accusano non deriverebbe solo dal
fatto che i produttori asiatici sarebbero attenti ai costi e quindi
disinteressati alla cura dei manufatti bensì anche da una deliberata pratica comune
in Occidente volta a utilizzare materiali scadenti o a inserire dei pezzi con
una marcata incapacità di resistere a pressioni poco al di sopra della media.
Visto che questa è la musica non serve
comprare prodotti più cari
dato che spesso le aziende del lusso adottano le stesse pratiche. Del resto se
loro non facessero come gli altri e quindi offrissero merci aventi una lunga
carriera operativa, quando venderebbero nuovi pezzi?
Con il tempo
poi le tecniche d’induzione all’acquisto di capi nuovi o comunque all’esborso
di sempre maggiori denari sono andate raffinandosi e ampliandosi.
Molto spesso
infatti la frequenza di prodotti
guastatisi poco dopo la garanzia legale di 2 anni induce sospetti che in realtà
nessuno è in grado di smentire convincentemente. La stessa estensione della garanzia a pagamento per un periodo
ulteriore ma limitata ad alcuni componenti del macchinario sembrerebbe un tentativo d’indurre il
cliente a sborsare ulteriori soldi a fronte di rotture di parti che i tecnici
reputano robusti e quindi improbabili. Ma guarda caso così facendo lasciano
senza possibilità d’indennizzo le altre, quelle più fragili ..
L’articolo di
Altroconsumo citato poi fa presente che : << .. Nel 2013 una nostra
inchiesta realizzata nei negozi di alcune grandi città ha rivelato che l’80% dei venditori rifiuta la sostituzione
di un prodotto, anche se per legge dovrebbe farlo; troppi fanno di tutto per
evitare di accollarsi i costi delle riparazioni o danno informazioni sbagliate.
.. >>.
Un simile
comportamento non è difficile da capire. Prodotti a basso prezzo che per di più
si rompono spesso e volentieri comportano per i commercianti al minuto rapporti
tesi con la clientela e un maggior daffare con servizi tecnici aziendali che
non soddisfano facilmente le loro richieste di riparazione e quindi una deriva
negativa dei ricavi.
Le stesse riparazioni dei macchinari poi sono
spesso scoraggiate perché i
pezzi di ricambio sono inesistenti oppure carissimi e così pure il costo della
manodopera, tanto da indurre soventemente i tecnici e i negozianti a
consigliare l’acquisto di un nuovo prodotto. E’ il caso delle batterie integrate che non si possono sostituire
ma bisogna cambiare tutto oppure dei cuscinetti
delle lavatrici che non possono essere cambiati e basta.
Come se non
bastasse la continua immissione sul
mercato di modelli più avanzati, belli o di moda, nonché la loro magnificazione
per mezzo dei messaggi pubblicitari induce psicologicamente a cercare di averli
buttando quelli vecchi anche se ancora
buoni ( il discorso vale, sia per l’abbigliamento, gli accessori, gli arredi, eccetera sia per i
prodotti tecnologici e i macchinari in
genere ). Cosa che produce l’effetto collaterale di creare più rifiuti
inquinanti e un inutile spreco di risorse naturali nonché impoverirci a fronte
di entrate sempre più basse. E’ ovvio
che se non gettassimo via quei denari in acquisti tutto sommato non necessari
ne rimarrebbero di più per mangiare meglio e più sano, per curarci e per
acquisti più intelligenti ma il fatto è che le imprese devono far si che il
loro bilancio sia allettante per gl’investitori e per fare ciò non resta loro che
arraffare soldi dove possono.
Senza contare la pressione delle lobby
finanziarie e industriali a livello politico affinché venga vietato l’uso di
certi prodotti oppure ci si debba adeguare obbligatoriamente a standard
superiori perché quelli in uso risulterebbero poco sicuri o maggiormente
inquinanti. Cosa che
spesso non è veritiera. Soventemente infatti, il maggior esborso di denaro che
l’innovazione comporta ( sempre che il privato possa permetterselo ), più l’incremento
del consumo di materie prime e d’inquinanti causati dalla sua stessa produzione
a fronte del problema dello smaltimento del prodotto che ha sostituito, non è
ricompensato da altri benefici che non siano l’incremento delle vendite di quei
beni da parte delle aziende e degli impiantisti.
Non farsi
fregare del resto a mio parere è impossibile e questo con o senza i servigi di
associazione di consumatori come Altroconsumo. Purtroppo, devo dire, e nonostante il loro prodigarsi : la posta in
gioco è molto alta e i competitori sono sempre troppi e agguerritissimi.
Aderire
a gruppi ecologisti e appoggiare i loro sforzi? Spesso non accettano la
situazione per quella che è e non comprendono le necessità delle parti. Si
comportano piuttosto come tori : vedono rosso e caricano travolgendo tutto quello che incontrano,
facendo più danni che guadagni.
c ) Riferimenti bibliografici
Altroconsumo numero 285 – Ottobre 2014, Vecchi prima del tempo Altroconsumo
Edizioni s.r.l.