Perché l'uso del concetto di Paideia e di Cultura a 360°

Perché l'uso del concetto di Paideia e di cultura a 360°

Dall'iniziale esaltazione dell'aretè, ovvero il culto del coraggio, della valenza fisica e dell'astuzia, gli uomini di cultura e i politici greci vennero man mano delineando una più complessa idea di uomo valente. Costui infatti, accanto al coltivare l'àristoi, ossia l'essere prode, doveva curare : << .. Il padroneggiamento della parola ( .. ) qual segno della sovranità della mente .. >>, ( Werner Jaeger, Paideia, Milano II Edizione Bompiani Pensiero Occidentale 2011, RCS Libri S. p. A. ). E' così che il concetto greco di Paideia prese la sua forma definitiva.

Da allora sono passati più di 2000 anni ma la bellezza e il fascino della visione di come quei " grandi " ritenevano dovesse essere l'uomo ideale non solo non è sorpassata ma, stante la decadenza della nostra Società, è quanto mai attuale.

Ed egualmente fondamentale, oggi come allora è la determinazione delle qualità, virtù ed abilità che il soggetto d'elite debba aver maturato. Doti e nozioni che a mio parere possono rilevarsi soltanto cominciando a pubblicizzare e studiare quanto di meglio i ricercatori scientifici e i nostri " geni " abbiano scoperto nei loro studi attorno all'uomo e alla società.

.. Quanto al resto .. E' solo ciccia! ..

martedì 18 giugno 2019

Populismo



Nel momento in cui nostre merci hanno grosse difficoltà a essere vendute a fronte di quelle asiatiche il  nostro apparato produttivo è entrato in panne e il “ sistema “ ha cercato di recuperare i profitti perduti per mezzo della speculazione finanziaria. A lungo andare però pure il settore bancario è entrato in crisi perché nel gioco d’azzardo  qualcuno perde sempre e a questo punto le sofferenze della popolazione che non riesce ad arrivare a fine mese si riducono in richieste d’attenzioni che il mondo politico non può non raccogliere. Il problema però non sta tanto nel farsene carico quanto nelle possibilità di risoluzione. Nell’ultimo ventennio infatti sono stati premiati i partiti che man mano hanno fatto promesse elettorali più radicali salvo poi abbatterli sistematicamente nel momento in cui deludevano l’aumentato numero di elettori in difficoltà. D’altro canto comprenderne le difficoltà e proporre espedienti seducenti comporta anche l’uso di un linguaggio più popolare .
Dunque, se in tutti questi anni di politica i professori, con le loro complicatissime analisi, non hanno concluso niente e faticano a raccogliere consenso li si bypasserà proponendo soluzioni più spicce ( anche perché nel frattempo il malessere della gente si è acuito di molto ), che raccolgano l’immediata adesione.
Da qui la nostalgia del passato  e il dito puntato contro l’Europa e l’élite al potere.
Non che su ciò abbiano torto ma il fatto è che qualunque Masaniello salga al governo diverrà  gradualmente tracotante come chi l’ha preceduto e, riguardo l’Europa, all’epoca l’Unione  faceva gola a tutti. L’integrazione economica e finanziaria infatti abbatteva costi e costituiva occasione per investimenti più fruttuosi così come favoriva l’intensificazione del commercio interno laddove quello extraeuropeo era già in difficoltà a causa della concorrenza orientale. Senza contare, per quanto riguarda l’Italia, che l’entrata nell’Unione poteva comportare la possibilità di trattare maggiori possibilità di chance, garanzie o dilazioni  riguardo il proprio debito pubblico.
Vero è che le cose non sono andate proprio così bene ma è ancora da vedere se i prossimi “ capi “ riusciranno a fare meglio.

Bibliografia

Giulio Tremonti, Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A


mercoledì 5 giugno 2019

L’Italia è entrata nell’euro perché l’ha voluta la Germania



Il professor Giulio Tremonti sostiene che con la riunificazione delle due Germanie si temeva un rafforzamento tale di quel paese e del suo marco da mettere in seria difficoltà gli altri stati europei. Da qui, forse, una delle ragioni della nascita dell’euro ovvero di una moneta unica che stabilendo un cambio fisso marco – euro avrebbe azzerato la probabile  rivalutazione del marco sulle altre monete europee. D’altro canto  è possibile che la Germania abbia accettato di buon grado l’euro, vuoi per non vedere salire alle stelle il valore della propria moneta, che avrebbe potuto danneggiare l’export, vuoi ottenendo prestiti a tasso agevolato che sostenessero i costi della riunificazione.
D’altronde l’Unione Europea non è nata in seguito a una sottomissione delle nazioni vicine alla più potente bensì in seguito a interminabili riunioni a tavolino dei primi ministri. E’ dunque ovvio che i paesi accettassero di costruirla in base alla propria convenienza e che questa fosse soprattutto economica e finanziaria. Non è un caso che il suddetto professore ( in Giulio Tremonti, Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A ), definisca il politico francese Jean Monnet e il suo “ metodo “ fondato sul principio : «Fede­rate i loro portafogli, federerete i loro cuori», quale grande ispiratore della strategia del MEC.
Al di la di ciò comunque l’Italia non centrava nessuno dei criteri stabiliti per entrare nell’euro. Nonostante ciò gran parte del mondo economico nostrano lo reputava un fattore essenziale per la nostra crescita economica mentre per il Governo sarebbe stato un prestigioso risultato da sbandierare.
Coi nostri 60 milioni di abitanti e la seconda industria manifatturiera d’Europa del resto potevamo rappresentare un pilastro importante della nuova Comunità Europea mentre, d’altro canto, gli alleati erano spaventati dal nostro debito pubblico e dalle debolezze strutturali politiche e sociali.
Tenerci fuori dall’EU tuttavia risultava inviso a molti ambienti economici e politici tedeschi. Sino ad allora infatti le nostre esportazioni avevano beneficiato della svalutazione della lira. I nostri costi produttivi infatti erano molto alti ma le vendite “ tenevano “, sia grazie al prestigio del design italiano considerato fra i più belli al mondo, sia per il fatto che il prezzo delle nostre merci in dollari e marchi non costavano un granché.
Insomma, non è che l’entrata dell’Italia nell’euro sia dipesa dalla tanto decantata abilità dei politici al governo quanto dagli ambienti industriali e finanziari tedeschi e non. Per costoro infatti  la scelta del Governo italiano di svalutare scientemente la valuta italiana per rendere più appetibili i nostri prodotti era considerata concorrenza sleale e dato che portava miliardi di perdite alle aziende di quegli stati li determinava a facilitarne l’entrata italiana nell’Unione.
In questo modo anche noi avremmo dovuto accettare un cambio fisso e a quel punto la nostra Banca centrale non avrebbe più potuto avvantaggiare l’export svalutando la lira a suo piacimento. Così facendo il costo delle merci italiane sarebbe stato simile se non superiore a quelle concorrenti e quindi questi sarebbero risultati più appetibili.
Non è un caso che nel corso di una riunione tenutasi sul lago Lemano i grandi esponenti dell’industria tedesca avessero predetto che una volta che l’industria italiana fosse entrata nell’euro sarebbe stata strangolata dal cambio fisso.
Acquistato il beneplacito europeo alla nostra entrata nell’Unione anche lo spread, ovvero l’interesse pagato in più per collocare i nostri titoli pubblici rispetto a quelli tedeschi, sarebbe sceso. Questo in quanto l’accettazione nel consesso europeo avrebbe funzionato da garante della nostra solvibilità. Il risultato favorevole ovviamente aveva alimentato il consenso attorno ai fautori dell’adesione alla UE che quindi si apprestarono di buon grado ad approntare le indispensabili correzioni di bilancio volte a limitare, entro la metà del 1998, la crescita annua del debito pubblico al 3% del PIL.
I tedeschi lo ottennero gonfiando il bilancio e diluendo così l’incidenza del debito, con le riserve aurifere, i francesi inserendo nella contabilità pubblica i fondi pensione, noi, sia diminuendo gl’investimenti pubblici ( anche se però la spesa pubblica corrente ha continuato a salire ), sia contabilizzando diversamente i contributi INPS, sia con l’incremento delle tasse, tra cui la cosiddetta “ eurotassa “.
L’entità del nostro “ rosso “ però era così alto che tali manovre non bastavano a centrare i parametri stabiliti a Maastricht. Tanto più poi che l’abbassamento dei tassi d’interesse non era rapido poiché una parte consistente dei nostri Titoli di Stato aveva ed ha durata pluriennale. Ciò significava che il saggio richiesto per essi avrebbe rallentato per alcuni anni la sua discesa complessiva.
Si ritenne così necessario ricorrere ad operazioni finanziarie altamente  speculative, ovvero facendosi imprestare somme molto grosse a fronte di 'opzioni swap sui tassi d'interes­se. Ciò comportava il poter presentare in bilancio entrate consistenti che “ diluivano “ in percentuale la consistenza del debito impegnandosi a pagare alla scadenza di queste cosiddette  swaption cifre disastrose nel caso che non si fosse riusciti a centrare l’opzione più favorevole. Nacquero così, scrive il noto professore ( in Rischi fatali, edito a Milano nel 2005 da Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. ), i : << .. Segretissimi “ derivati per l'Europa “ .. >>.
Senza quei pastrocchi, sostiene ancora il noto studioso e uomo politico, l’andamento del PIL di quegli anni non sarebbe stato tale da giustificare entrate così alte come quelle presentate in bilancio. Senza contare poi che queste “ manovre “, che erano rese necessarie dalla nostra debolezza finanziaria, erano risapute dai nostri alleati  e li preoccupava riguardo , la nostra solvibilità al punto da costringerci ad accettare condizioni di cambio lira – euro molto penalizzanti.
In conclusione, da che mondo è mondo chi pecora si fa il lupo se la mangia e noi essendo una potenza di serie B, la cui classe dirigente per di più non è d’accordo su niente, siamo ancora più appetibili da spartire nei banchetti ove sono invitati i grandi.

b ) Bibliografia

Giulio Tremonti, Bugie e verità, Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A
Giulio Tremonti, Rischi fatali, Milano 2005, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A..

lunedì 3 giugno 2019

Inquinamento


  

Secondo i dati del professor Tremonti ( in : La paura e la speranza, edito a Milano nel 2008 da Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. ), nel 2030 la domanda globale di energia sarà superiore a oggi del 50% e l’80% di essa continuerà a riguardare i combustibili fossili.
Sempre nel 2030 è probabile che il consumo asiatico di quella superi quello europeo e che la Cina sia diventata già dal primo ventennio del secolo il più grande divoratore di energia del mondo. L’India ovviamente farà la sua parte e grazie a tutto ciò si presume che il prezzo del petrolio sarà, come minimo, sopra i 60 dollari al barile e che la maggior parte di questo verrà prodotto in aree instabili del mondo.
Date simili premesse è scontato che l’inquinamento e le emissioni di anidride carbonica diventino drammatiche così come  a noi europei non consolerà il sapere che i due terzi del loro aumento sia imputabile a USA, Russia Cina e India e che fra questi campioni spicchino come al solito Pecchino e Nuova Delhi.
Com’è risaputo a quel punto l’effetto previsto da molti scienziati sarà drammatico : le temperature aumenteranno di tre, quattro gradi, gli oceani si innalzeranno di 60 centimetri, regioni temperate conosceranno climi polari e viceversa, diminuiranno le riserve di acqua potabile e s’innescheranno tutta una serie di eventi atmosferici devastanti.
Inutile strapparsi i capelli, sino a quando ci vorranno non so quante centinaia di pale eoliche e quanti chilometri quadrati di pannelli solari per il fabbisogno energetico di una cittadina media non sarà possibile fare granché. E aggrapparsi, quali rimedi ottimali, alla raccolta differenziata, alle macchine elettriche, al risparmio termico nelle abitazioni e quant’altro saranno solo palliativi il cui maggior costo risulterà insostenibile alle classi meno abbienti.
I paesi emergenti del resto al momento se ne fregano dell’ambiente : la loro maggior preoccupazione va a cercare di stare finalmente meglio e sono ben contenti se gli europei, che hanno sviluppato una certa qual sensibilità alle tematiche ecologiche, stabiliscono rigorose regole interne volte a migliorare la qualità della vita. I costi di quest’operazione del resto si rifletteranno in maniera considerevole sul prezzo dei loro prodotti e ciò renderà ancor più convenienti i prodotti avversari.
Sperando che abbiano ragione quei tanti studiosi che sostengono che buona parte del riscaldamento globale dipenda dall’aumentata attività solare, bisogna comunque considerare il fatto che siamo in 12 miliardi a calpestare la superficie terrestre e che una tale massa, per il solo fatto che respiri, beva e cerchi di sopravvivere, così come vuole il nostro primordiale istinto, non può che imprimere delle modifiche ambientali tali da squilibrarlo.
Sempre che non si decida di rimediare alla sovrappopolazione innescando un terzo conflitto mondiale, soluzione tutt’altro che impossibile anche se razionalmente assurda. .. Ed è purtroppo attuabile perché l’individuo, se messo alle  strette dà la priorità, grazie alla sua “ programmazione istintuale “, alla propria sopravvivenza e non si farà scrupolo, pur di riuscirvi, di trucidare, bruciare, torturare, gassare e bombardare chi lo ostacoli.
Cosa dite : l’ambiente ne avrà dei benefici?
E’ pure difficile che a un certo punto si scelga di buon grado di abbandonare la vita civile per ritornare a vivere come una volta, senza denaro e mezzi, facendo solo uso di quello che fornisce la natura. Se non sbaglio nei secoli passati l’insalata era molto saporita e senza veleni ma ciò nonostante la vita media di un uomo non superava i 20-30 anni. Com’è possibile se quello che mangiavamo era tutto naturale e senza pesticidi?
Qui qualcuno non ha capito un cazzo, credetemi!

b ) Bibliografia

Giulio Tremonti, La paura e la speranza, Milano 2008, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A..