Il professor
Giulio Tremonti sostiene che con la riunificazione delle due Germanie si temeva
un rafforzamento tale di quel paese e del suo marco da mettere in seria
difficoltà gli altri stati europei. Da qui, forse, una delle ragioni della
nascita dell’euro ovvero di una moneta unica che stabilendo un cambio fisso marco
– euro avrebbe azzerato la probabile rivalutazione
del marco sulle altre monete europee. D’altro canto è possibile che la Germania abbia accettato
di buon grado l’euro, vuoi per non vedere salire alle stelle il valore della propria
moneta, che avrebbe potuto danneggiare l’export, vuoi ottenendo prestiti a
tasso agevolato che sostenessero i costi della riunificazione.
D’altronde
l’Unione Europea non è nata in seguito a una sottomissione delle nazioni vicine
alla più potente bensì in seguito a interminabili riunioni a tavolino dei primi
ministri. E’ dunque ovvio che i paesi accettassero di costruirla in base alla
propria convenienza e che questa fosse soprattutto economica e finanziaria. Non
è un caso che il suddetto professore ( in Giulio Tremonti, Bugie e verità,
Milano 1° edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A ), definisca il politico francese Jean Monnet e
il suo “ metodo “ fondato sul principio : «Federate i
loro portafogli, federerete i loro cuori», quale grande ispiratore della strategia del MEC.
Al di la di
ciò comunque l’Italia non centrava nessuno dei criteri stabiliti per entrare
nell’euro. Nonostante ciò gran parte del mondo economico nostrano lo reputava
un fattore essenziale per la nostra crescita economica mentre per il Governo
sarebbe stato un prestigioso risultato da sbandierare.
Coi nostri 60
milioni di abitanti e la seconda industria manifatturiera d’Europa del resto potevamo
rappresentare un pilastro importante della nuova Comunità Europea mentre, d’altro
canto, gli alleati erano spaventati dal nostro debito pubblico e dalle
debolezze strutturali politiche e sociali.
Tenerci fuori
dall’EU tuttavia risultava inviso a molti ambienti economici e politici
tedeschi. Sino ad allora infatti le nostre esportazioni avevano beneficiato
della svalutazione della lira. I nostri costi produttivi infatti erano molto
alti ma le vendite “ tenevano “, sia grazie al prestigio del design italiano
considerato fra i più belli al mondo, sia per il fatto che il prezzo delle
nostre merci in dollari e marchi non costavano un granché.
Insomma, non è
che l’entrata dell’Italia nell’euro sia dipesa dalla tanto decantata abilità dei
politici al governo quanto dagli ambienti industriali e finanziari tedeschi e
non. Per costoro infatti la scelta del
Governo italiano di svalutare scientemente la valuta italiana per rendere più
appetibili i nostri prodotti era considerata concorrenza sleale e dato che
portava miliardi di perdite alle aziende di quegli stati li determinava a
facilitarne l’entrata italiana nell’Unione.
In questo modo
anche noi avremmo dovuto accettare un cambio fisso e a quel punto la nostra
Banca centrale non avrebbe più potuto avvantaggiare l’export svalutando la lira
a suo piacimento. Così facendo il costo delle merci italiane sarebbe stato simile
se non superiore a quelle concorrenti e quindi questi sarebbero risultati più
appetibili.
Non è un caso
che nel corso di una riunione tenutasi sul lago Lemano i grandi esponenti
dell’industria tedesca avessero predetto che una volta che l’industria italiana
fosse entrata nell’euro sarebbe stata strangolata dal cambio fisso.
Acquistato il
beneplacito europeo alla nostra entrata nell’Unione anche lo spread, ovvero l’interesse
pagato in più per collocare i nostri titoli pubblici rispetto a quelli
tedeschi, sarebbe sceso. Questo in quanto l’accettazione nel consesso europeo
avrebbe funzionato da garante della nostra solvibilità. Il risultato favorevole
ovviamente aveva alimentato il consenso attorno ai fautori dell’adesione alla
UE che quindi si apprestarono di buon grado ad approntare le indispensabili
correzioni di bilancio volte a limitare, entro la metà del
1998, la crescita annua del debito
pubblico al 3% del PIL.
I tedeschi lo
ottennero gonfiando il bilancio e diluendo così l’incidenza del debito, con le
riserve aurifere, i francesi inserendo nella contabilità pubblica i fondi
pensione, noi, sia diminuendo gl’investimenti pubblici ( anche se però la spesa pubblica corrente ha continuato a salire ), sia contabilizzando diversamente i contributi
INPS, sia con l’incremento delle tasse, tra cui la cosiddetta “ eurotassa “.
L’entità del
nostro “ rosso “ però era così alto che tali manovre non bastavano a centrare i
parametri stabiliti a Maastricht. Tanto più poi che l’abbassamento dei tassi
d’interesse non era rapido poiché una parte consistente dei nostri Titoli di
Stato aveva ed ha durata pluriennale. Ciò significava che il saggio richiesto
per essi avrebbe rallentato per alcuni anni la sua discesa complessiva.
Si ritenne
così necessario ricorrere ad operazioni finanziarie altamente speculative, ovvero facendosi imprestare
somme molto grosse a fronte di 'opzioni swap sui tassi d'interesse. Ciò
comportava il poter presentare in bilancio entrate consistenti che “ diluivano
“ in percentuale la consistenza del debito impegnandosi a pagare alla scadenza
di queste cosiddette swaption cifre disastrose nel caso
che non si fosse riusciti a centrare l’opzione più favorevole. Nacquero così,
scrive il noto professore ( in Rischi fatali, edito a Milano nel 2005 da Arnoldo
Mondadori Editore S.p.A. ), i : << .. Segretissimi “ derivati
per l'Europa “ .. >>.
Senza quei
pastrocchi, sostiene ancora il noto studioso e uomo politico, l’andamento del
PIL di quegli anni non sarebbe stato tale da giustificare entrate così alte
come quelle presentate in bilancio. Senza contare poi che queste “ manovre “,
che erano rese necessarie dalla nostra debolezza finanziaria, erano risapute
dai nostri alleati e li preoccupava
riguardo , la nostra solvibilità al punto da costringerci ad accettare condizioni
di cambio lira – euro molto penalizzanti.
In conclusione, da che mondo è mondo chi pecora si fa il lupo se la
mangia e noi essendo una potenza di serie B, la cui classe dirigente per di più non è
d’accordo su niente, siamo ancora più appetibili da spartire nei banchetti ove
sono invitati i grandi.
b ) Bibliografia
Giulio
Tremonti, Bugie e verità, Milano 1°
edizione 2014, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A
Giulio
Tremonti, Rischi fatali, Milano
2005, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A..